"Romanzo criminale" di Giancarlo de Cataldo
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Assaggio
Se ne stava rannicchiato fra due auto in sosta e aspettava il prossimo colpo cercando di coprirsi il volto. Erano in quattro. Il più cattivo era il piccoletto, con uno sfregio di coltello lungo la guancia. Tra un assalto e l'altro scambiava battute al cellulare con la ragazza: la cronaca del pestaggio. Menavano alla cieca, per fortuna. Per loro era solo un gran divertimento. Pensò che potevano essergli figli. A parte il negro, si capisce. Pischelli sbroccati. Pensò che qualche anno prima, solo a sentire il suo nome, si sarebbero sparati da soli, piuttosto che affrontare la vendetta.
Qualche anno prima. Quando i tempi non erano ancora cambiati. Un attimo fatale di distrazione. Lo scarpone chiodato lo prese alla tempia. Scivolò nel buio. - Annamo, - ordinò il piccoletto, — me sa che questo non s'alza più! Ma si alzò, invece. Si alzò che era già buio, con il torace in fiamme e la testa confusa. Poco più avanti c'era una fontanella. Si ripulì del sangue secco e bevve una lunga sorsata d'acqua ferrosa. Era in piedi. Poteva camminare. Per strada, automobili con lo stereo a tutto volume e gruppi di giovani che giocherellavano col cellulare e schernivano il suo passo sbilenco. Dalle finestre le luci azzurrine di mille televisori. Poco più avanti ancora, una vetrina illuminata. Si considerò nel riflesso del vetro: un uomo piegato, il cappotto strappato e macchiato di sangue, pochi capelli unti, i denti marci.
Un vecchio. Ecco cos'era diventato. Passò una sirena. D'istinto si appiatti contro il muro. Ma non cercavano lui. Nessuno più lo cercava. — Io stavo col Libanese! — mormorò, quasi incredulo, come se si fosse appena appropriato della memoria di un altro.
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